Il viaggio per Bangoulap - giovedì 10 dicembre 1992
Iniziamo il viaggio la mattina su una strada asfaltata, confortevole. Le strade in Camerun sono state costruite per lo più da imprese italiane. Ci fermiamo a metà strada a Nkongsamba, dopo un paio d'ore di viaggio. C'è la casa di Jean-Claude, dove troviamo la moglie Thérèse con i bambini. Stanno arrotolando la manioca in foglie di banano, mi metto ad aiutarle un po'. Ho mangiato spesso in Italia questa sorta di insapore accompagnamento dei cibi, il miondo, e faccio domande sulla preparazione.
Si mangia qualcosa e si riparte per il villaggio. Il paesaggio cambia, diventa montagnoso, la terra è rossa, le case sono costruite con mattoni della stessa terra, alcune sono rivestite di cemento. Il paesaggio offre allo sguardo distese di vegetazione, piantagioni di banane, eucalipti, palme. L'opera dell'uomo ha qui un certo ordine e buon gusto, assente nelle periferie delle grandi città. Attraversiamo Bangangté, che ci ha accolti con un cartello di benvenuto: SU MABUO. Justin e Jean-Claude si sentono già a casa. Hanno parlato animatamente per tutto il viaggio e continuano a discorrere: sono tante le cose da dirsi, cose che comprendo solo in minima parte, essendo dette in medumba.
Usciti da Bangangté, si entra subito a Bangoulap. Quello che credevo un insieme di poche decine di case mi si rivela un insediamento vasto, con diversi quartieri. Arriviamo fino in fondo al villaggio. I primi a correrci incontro sono, come al solito, i bambini, che vogliono aiutarci con i bagagli. Poi arriva Jeannette, altra sorella di Justin, che si trova qui al villaggio. Infine Mama Olo'o, la mamma di Justin. Tutti ci accolgono con grandi espressioni di gioia. Si va su per una piccola salita ed eccoci infine al compound della famiglia di Justin. Ci sono quattro casette, costruite come la maggior parte delle casette del villaggio, in mattoni di terra rossa e tetto in lamiera. Solo poche famiglie agiate hanno case con standard vicini a quelli occidentali, ossia con elettricità, acqua corrente, telefono. Le casette degli abitanti del villaggio sono generalmente costituite da un paio di locali, su un solo piano, con pavimento in terra battuta o cemento. Si cucina su un fuoco acceso al centro della prima stanza, priva di camino; il fumo riempie così il locale, ma questo non sembra infastidire gli occupanti.
Entriamo nella casa di Oko'o, la nonna. È malata, sta su un letto di bambù vicino al fuoco. La commozione nell'incontro con Justin è indescrivibile, tanto che devo trattenere le lacrime. Poi saluta anche me abbracciandomi e baciandomi; prova persino ad alzarsi per ballare, ma non ce la fa. Io dico tutte le frasi che conosco nella lingua locale adatte alla situazione. La gente è contenta quando parlo la loro lingua; per chi non conosce il francese è l'unico modo per comunicare. Purtroppo sono ancora ai primissimi stadi, ma mi sforzo di ascoltare e di dire qualcosa.
Hanno preparato in un'altra casetta una stanza per noi due, pulita e con un letto abbastanza morbido, con lenzuola e una coperta. Depositiamo lì i bagagli. La sera si resta a chiacchierare, chi intorno al fuoco, chi sulla veranda della casa di Baba, alla luce delle lampade a olio. Anche Baba, che all'anagrafe si chiama Joseph ed è il padre di Justin, mi ha salutata con giovialità ed ora racconta, parla dei suoi figli, della sua vita, e si sforza di immaginare la vita nello ngo mekat, il "paese dei bianchi", dove ci sono francesi, tedeschi, italiani, inglesi, americani, proprio come da loro ci sono Bamileke, Bassa, Banso, Douala, Ewondo. Baba parla in medumba, che alterna al pidgin, la lingua franca basata sull'inglese, dove riesco a capire qualcosa in più. Chiede di vedere le foto dei posti da cui vengo e gli mostro le foto che ho portato con me. Le guarda interessato, mentre una nipote fa da interprete e gli spiega chi sono le persone fotografate, urlandogli nell'orecchio (Baba è quasi sordo).
Compound: terreno con le case di una famiglia.
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