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L'arrivo - mercoledì 9 dicembre 1992

Decolliamo da Roma alle 2.30 di notte, sotto una pioggia battente. È il mio primo viaggio nell'Africa subsahariana e, dopo un paio d'ore di dormiveglia, eccomi a scrutare il cielo e la terra, o quello che se ne intravede nel buio. Verso le 5.30 noto sull'orizzonte orientale un vago rossore, che si intensifica fino a divenire arancio. Il cielo, da nero, si fa grigio, e sotto comincia a scorgersi la terra, un paesaggio arido e deserto. Alle 6.30 il sole sorge, rapidamente emergendo dall'orizzonte e divenendo da arancio a giallo a bianco, di un biancore accecante in un cielo blu.

Atterriamo a Douala alle 7.30. All'uscita dall'aereo ci accoglie un'aria afosa sotto un cielo plumbeo. Il cielo ben presto si schiarirà, ma l'afa a Douala non ci abbandona. Nell'aeroporto spoglio la gente fa la fila, per il controllo dei bagagli, il controllo dei passaporti, di nuovo il controllo dei bagagli. Nella sala di ritiro bagagli ci sono delle vetrate dietro le quali attendono le persone che sono venute ad accogliere amici e parenti. Un giovane attrae la mia attenzione battendo sul vetro, ridendo, indicando me e Justin. È Sihoner, nipote di Justin. Con lui la madre Hélène, sorella di Justin, e Gilbert, un altro mio cognato. Tutti e tre salutano e sorridono, in continuazione. Gilbert viene ad accoglierci. Tiro fuori i rudimenti di medumba che ho appreso prima del viaggio e lo saluto nella loro lingua, il che viene molto apprezzato. Portiamo i bagagli fuori, dove ad attenderci con un'auto a noleggio c'è Jean-Claude, il fratello minore di Justin. Petit-frère, grand-frère: qui non si manca mai di specificare la relazione di anzianità tra fratelli e i minori di età si rivolgono ai maggiori anteponendo al loro nome l'appellativo nza, "grande". Imparo presto a dire "nza Hélène, nza Gilbert".

Avevo conosciuto Jean-Claude diversi anni prima a Roma, quando era venuto a trovare Justin arrivato da poco. Lo saluto, contenta di rivederlo dopo tanto tempo. Ci stringiamo in automobile in sei con tutti i bagagli e ci avviamo in città. Le case dei sobborghi cittadini sono piuttosto delle baracche: alcune in muratura, altre in legno. I tetti sono una selva di lamiere ondulate, le acque di scarico corrono in canali di scolo ai lati delle strade, affollate di gente che vende, compra, trasporta merci su carretti. Ci facciamo largo con l'automobile tra ciclisti e pedoni. La casa di Hélène è là. È in muratura, c'è un salotto con due divani e due poltrone. Ci sediamo a chiacchierare. Faccio fatica a seguire il filo della conversazione, che mescola francese e medumba, mentre si fa sentire la stanchezza che mi trascino dalla notte insonne. Chiedo del bagno. Justin mi aveva preavvertito che non avrei trovato le comodità a cui sono abituata; infatti vengo accompagnata all'esterno, accanto alla strada, a un casotto di lamiera ondulata. All'interno, la nuda terra e una buca. Tra i fogli di lamiera diverse fessure. Per il momento rinuncio. Più avanti troverò anche dei bagni meglio riparati, con il pavimento in cemento, seppure con il solito buco, alla turca ultraspartana, ma in altri casi dovrò imparare ad arrangiarmi. La maggior parte della gente non ha l'acqua corrente in casa, bisogna andare a raccoglierla da fonti pubbliche.

Tornano i bambini dalla scuola, ci guardano incuriositi, dapprima timidi, poi più intraprendenti. Non si devono vedere spesso bianchi da queste parti. Uno mi racconta eccitato di avermi vista in televisione. Non sono mai stata in televisione, evidentemente mi scambia per qualcun'altra. Come noi facciamo fatica a distinguere un africano dall'altro, evidentemente anche a loro noi europei sembriamo tutti uguali.
Mangiamo un dolce portato dall'Italia, poi della manioca con salsa di pesce.

Si va a casa di Julienne, la sorella maggiore, che ha tredici figli. È malata, sta in cortile su un materasso per terra. La visita successiva è dalla zia di Justin, nella casa dove lui è cresciuto. La casa è in legno, ma la stanno pian piano rifacendo in muratura. Dovunque passiamo ci offrono qualcosa da mangiare.

A casa di Gilbert scattiamo qualche foto. Molti bambini, tra i quali non riesco a distinguere quelli della famiglia da quelli dei vicini, vogliono essere ripresi insieme a noi, tranne uno che rimane sdegnoso in disparte e, quando gli viene chiesto perché non vuole fotografarsi con la blanche, dice: "Je n'aime pas sa bouche."
Verso le 18 riesco a riposare un po'. Più tardi arriva un'altra zia, si chiacchiera ancora. Mostro delle mie foto; tre vengono prese. Verso le 21.30 torna Justin, che era in giro con i fratelli. Si mangia ancora qualcosa prima di dormire.


Medumba: una delle circa duecento lingue native del Camerun, nessuna delle quali ha status di ufficialità. Le lingue ufficiali sono il francese e l'inglese (parlato, quest'ultimo, nelle provincie del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, già parte della Nigeria). Le lingue locali vengono comunemente chiamate "dialetti", ma questo termine non rende giustizia alla loro dignità di sistemi linguistici completi e complessi, pur se mancanti di una tradizione scritta.

Nza: la pronuncia della "a" è simile a quella della "u" della parola inglese "cup" e si rappresenta con il simbolo fonetico ʌ (per visualizzarlo correttamente dovete avere il font Lucida Sans Unicode). In questo diario di viaggio non utilizzerò tuttavia i simboli fonetici per riprodurre i suoni delle parole medumba riportate, ma le lettere dell'alfabeto latino che meglio possono dare un'idea della pronuncia.

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